Vincitore del World Press Photo of the Year 1996, Francesco Zizola ha documentato i principali conflitti mondiali e le loro crisi nascoste, concentrandosi sulle questioni sociali e umanitarie che definiscono la vita, ricevendo numerosi riconoscimenti, tra cui dieci World Press Photo e sei Picture of the Year International. Con “Mare Omnis”, dove le reti usate per la pesca del tonno fotografate da un drone sembrano raffigurare graffiti arcaici e costellazioni lontane, Zizola ci pone di fronte all’interrogativo di cosa guardiamo veramente quando vediamo un’immagine e, attraverso la fotografia, ci apre nuove possibili comprensioni della complessità della realtà.
Chi sei?
Sono Francesco e per più di 40 anni ho utilizzato la fotografia per conoscere il mondo e me stesso. Nei primi tre decenni ho voluto conoscere i confini fisici e culturali del nostro pianeta viaggiando lontano dall’Italia e dalla cultura che mi ha generato. Mi sono fatto testimone della verità del dolore degli altri perché ho cercato la verità del mio dolore. Ho probabilmente riconosciuto il dolore degli altri perché ho sentito il mio. Il bisogno di raccontare il mondo degli innocenti e degli ultimi è nato prima che io decidessi di prendere la macchina fotografica in mano. Ho capito poi che con la fotografia potevo raccontare qualcosa che normalmente le persone non vedono. La realtà ai miei occhi assume i contorni simbolici perché scopro tra i suoi strati qualcosa che mi corrisponde e diventa così una realtà condivisa. I primi trent’anni con la fotografia li ho passati a catturare il mondo in cui mi immergevo viaggiando dentro e oltre i confini conosciuti.
E poi?
Poi ho scoperto che mi piace il mare, che mi piace la poesia, che il mio sguardo poteva continuare a scoprire qualcosa che parte dalla superficie ma continua la ricerca in profondità, che il mio pensiero ha necessità di complessità e di bellezza. Qualcosa è cambiato da quando ho riconosciuto il mio dolore e ho iniziato a lavorare sul pianeta e sull’uomo che sono diventato. Con la fotografia mi obbligo al rapporto con la realtà, ma la luce che utilizzo per esprimermi si è liberata per sempre dalle convenzioni novecentesche per diventare segno libero e provocatorio. I temi sono sempre quelli che ci riguardano, quelli universali relativi alla nostra presenza e alla nostra responsabilità etica. Ma il segno è un segno che vuole interrogare più che mostrare, più che spiegare. È ancora fotografia quella che utilizzo perché rispetto il processo originario della luce catturata attraverso un obiettivo grazie ad una superficie sensibile.
E ora?
E ora è dal 2015 che sono impegnato su un nuovo fronte; il tema, antico, di questa nuova ricerca sono i quattro elementi che costituiscono il mondo, e come gli uomini interagiscono con essi, e se questo rapporto sia sostenibile, durevole oppure – come oggi si teme – destinato a precipitare. Ho iniziato dall’acqua, dal mare. Non è più fotografie di guerra ma l’ambiente che indago è un gigantesco campo di battaglia nel quale pescatori-guerrieri vanno d’astuzia e di forza a caccia delle loro prede. La pesca del tonno è uno scontro Omerico, nel quale i combattenti hanno volti di eroi dell’Odissea e le regole sono arcaiche, mitologiche. E le armi sono queste strane forme bianche disegnate dalle reti sul nero dei flutti, nelle quali ciascuno può ritrovare ciò che vuole, un dipinto di Paul Klee o un gioco di bambini tracciato col gesso sull’asfalto. Disegni della mente, come la tela del ragno. Formae mentis, segni dell’uomo sull’imperturbabilità della natura, micidiali astrazioni poggiate sui flutti. Le mie immagini delineano un mondo nel quale sono in realtà tutti sconfitti, prede e cacciatori spazzati via dal consumo industriale. Un mondo che era in equilibrio, ma che non è più. Ora sono alle prese con la ricerca sull’elemento dell’aria e la serie di 23 immagini che ho appena terminato di produrre ci porta a scoprire dietro l’apparenza di asteroidi persi nel vuoto astrale, gli ultimi istanti di esistenza di enormi iceberg che diventano acqua a causa del riscaldamento globale.
Cos’è per te il made in Italy?
Il made in Italy per me è la consapevolezza chiara e precisa di essere nato in un paese che ha dato i natali ad una delle invenzioni che hanno trasformato il mondo. Mi occupo di immagini e di fotografia, e questa invenzione che produce immagini, con cui attualmente la maggior parte degli esseri umani nel mondo comunica, non sarebbe esistita se non fosse stata scoperta ed inventata la prospettiva. Con la prospettiva, sempre nel nostro paese, è stata inventata anche la prima rudimentale “macchina fotografica” ovvero la camera oscura. Senza questa invenzione che ha permesso all’uomo di rappresentare la terza dimensione, la profondità, in una superficie bidimensionale, la fotografia ed il cinema non sarebbero stati inventati. Queste due invenzioni risalenti al XVI secolo dovrebbero essere alla base di un rilancio culturale del Made in Italy in relazione alla creazione e all’uso delle immagini, ormai di dominio universale.